“Oggi abbiamo conoscenze, tecnologie e terapie che stanno rivoluzionando la gestione della cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva, ma senza una rete organizzata continueremo ad avere ritardi diagnostici e accessi diseguali alle cure”. Così Giuseppe Limongelli, Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, introduce il progetto BEat – Percorsi di riflessione e confronto sulla gestione del paziente con cardiomiopatia, di cui è membro del Board scientifico. La patologia, ricorda, è “caratterizzata dall’ingrandimento del cuore in larga parte dovuto a cause genetiche” e per anni è rimasta appannaggio di pochi centri esperti. “Oggi però lo scenario è cambiato: conosciamo meglio le basi genetiche, abbiamo a disposizione tecniche di multi-imaging e terapie mirate che richiedono un’organizzazione diversa”. Il nodo principale resta la diagnosi tardiva: “Il ritardo può superare l’anno e talvolta arrivare a 3-4 anni. Per abbatterlo serve formazione: ai cardiologi non esperti, ma anche ai medici di medicina generale, che spesso sono i primi a intercettare i segnali d’allarme”.
A questo si affianca la necessità di potenziare l’offerta di genetica clinica e molecolare e di costruire centri di riferimento multidisciplinari, con un ruolo strutturale dei genetisti e degli specialisti dell’imaging avanzato. Nel documento Beat, edito Edra, vengono identificati questi pilastri come base di una programmazione sanitaria omogenea sulle cardiomiopatie. Limongelli insiste: “Le nuove terapie richiedono centri preparati e sostenuti dalle Regioni, capaci non solo di prescriverle, ma di seguire i pazienti nel lungo periodo con un follow-up strutturato”. La cardiomiopatia ipertrofica, pur non essendo tecnicamente una malattia rara, “ha tutte le caratteristiche delle rare: ritardo diagnostico, complessità, necessità di un approccio multidisciplinare, pochi centri specialistici”. Per questo, secondo il Board, serve un modello simile alle reti delle malattie rare: “Le Regioni devono identificare i centri di riferimento con criteri basati sull’expertise, garantendo allo stesso tempo copertura territoriale e percorsi condivisi”. Il modello proposto è quello hub & spoke, con un nucleo iniziale di centri hub collegati a centri spoke che, grazie alla formazione, possano crescere fino a diventare nuovi centri di expertise. “Servono ambulatori multidisciplinari, competenze di imaging e genetica e la capacità di prescrivere farmaci che richiedono grande precisione e un follow-up dedicato”. Le terapie innovative, integrate in una rete così strutturata, possono diventare “un vero driver di equità e di Value-Based Care”, garantendo accesso omogeneo indipendentemente dalla Regione.
Il progetto BEat può, secondo Limongelli, diventare uno strumento concreto per ridurre le disparità territoriali: “Può aiutare le Regioni e le istituzioni ad adottare criteri omogenei, superando le barriere che oggi ostacolano diagnosi tempestive e accesso alle terapie”. La sfida adesso è trasformare questa architettura in realtà: “Serve una governance nazionale che definisca criteri condivisi per i centri di expertise, garantisca percorsi uniformi e riduca le disuguaglianze regionali. Il coinvolgimento attivo delle istituzioni, delle società scientifiche e delle associazioni dei pazienti sarà decisivo”. Solo così, conclude, ogni persona con cardiomiopatia “potrà avere le stesse opportunità di cura, indipendentemente da dove risiede, oggi e nel lungo periodo”.