Medicina di genere, Moretti (Siseg): bisogna cambiare approccio. I tre punti da applicare
Nonostante il varo della legge sulla medicina di genere di cinque anni fa e la recente nascita dell'Osservatorio nazionale, la percezione è che in Italia un cambio nell'approccio medico-scientifico sotto un'ottica di genere stenti ancora a prender piede. È quanto emerge dalle parole di Anna Maria Moretti presidente della Società scientifica Giseg-Gruppo Italiano Salute e Genere, intervistata da Sanità33. «La medicina di genere è la medicina che tutti noi dovremmo avere per obiettivo, ordinariamente, considerando differenze e disequità e dando risposte a tutte le posizioni che hanno meno voce nella nostra società, l'età, l'etnìa, le condizioni sociali», riflette.
In molti ambiti, «il concetto di medicina di genere oggi è ancora fuorviante - dichiara - La medicina di genere è partita dalla valutazione delle differenze nelle manifestazioni cliniche in alcune malattie da uomo donna. Questo ha fatto parte anche degli ambiti di ricerca, sono pubblicati numerosi lavori in questo settore anche molto significati. In realtà, però, da allora la medicina di genere ha avuto un'evoluzione forte tant'è che, anche per sollecitazione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, sono stati definiti degli indicatori che non sono più soltanto biologici, e quindi non valutano più solo la differenza della malattia, ma sono anche degli indicatori di contesto. Nel senso che pongono l'attenzione ad alcune caratteristiche specifiche, per esempio quelle del livello di istruzione, quello della condizione socio-economica del paziente o del contesto in cui si vive». Un altro aspetto interessante della medicina di genere, emerso in tempi recenti, è l'enorme impatto del ruolo che questa ha avuto nell'ambito dell'analisi e dell'elaborazione dei dati. Una lezione appresa anche grazie all'esperienza della pandemia. «Abbiamo visto, ad esempio, come in realtà il covid sia stata una malattia di genere non soltanto perché ha avuto un impatto più negativo sul sesso maschile, o un impatto più negativo nei termini successivi di long covid nel sesso femminile; ma è stata una malattia di genere perché, contestualizzata nelle varie realtà, ha dato degli esiti di malattia o di assistenza totalmente differenti e relativi all'organizzazione sanitaria che quella Regione si era data in quel momento. Abbiamo tutti sentito parlare quali differenze ci sono state per esempio nelle vaccinazioni e in termini di percentuale sulla popolazione di significatività proprio in alcune regioni rispetto ad altre».
«Questa è una problematica di genere - spiega - e dobbiamo cominciare ad essere sensibili su questo tipo di argomento e sulla programmazione possibile». « Noi abbiamo richiesto sia come tavolo delle regioni ma anche come esperti dell'istituto superiore di sanità che le regioni applichino quantomeno tre punti fondamentali: il primo punto è quello di delegare i direttori generali ad attivare delle iniziative in ambito di genere; due quello di individuare degli indicatori specifici In relazione ad ogni territorio sulla medicina di genere; e poi quello di sensibilizzare l'opinione pubblica non sono gli operatori ma anche l'opinione pubblica a questo tipo di argomento», sottolinea Moretti.
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