Professione medica
Università
17/12/2025

Accesso a Medicina, Gimbe: con riforma rischio pletora per i futuri medici

Secondo la Fondazione GIMBE l’aumento degli accessi a Medicina non risponde a una reale carenza di medici e rischia di produrre nel medio-lungo periodo un eccesso di laureati

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La riforma dell’accesso a Medicina rischia di produrre, nel medio-lungo periodo, una nuova pletora medica senza risolvere le criticità strutturali del Servizio sanitario nazionale. È la posizione espressa dalla Fondazione GIMBE in un’analisi diffusa il 17 dicembre, che mette in discussione i presupposti alla base dell’aumento degli accessi ai corsi di laurea in Medicina.

Secondo GIMBE, la riforma non risponde a una carenza numerica di medici in termini assoluti. I dati OCSE indicano che nel 2023 in Italia erano attivi 315.720 medici, pari a 5,4 ogni 1.000 abitanti, un valore superiore sia alla media OCSE sia a quella europea. Anche il numero di laureati in Medicina e Chirurgia risulta in linea o leggermente superiore alle medie internazionali. Per la Fondazione, questi dati smentiscono la narrazione di una carenza strutturale di medici che giustifichi l’aumento massiccio degli accessi.

Il nodo principale, sottolinea GIMBE, riguarda invece la fuga dal SSN e le carenze selettive. Dal confronto tra le diverse fonti emerge che circa 93 mila medici, pari a quasi il 30% del totale censito, non lavorano nel Servizio sanitario nazionale come dipendenti o convenzionati né risultano inseriti in percorsi formativi post-laurea. Una quota che, secondo la Fondazione, potrebbe essere oggi ancora più elevata alla luce dell’aumento di pensionamenti anticipati e dimissioni volontarie.

Le difficoltà maggiori si concentrano nella medicina generale e in alcune specialità considerate poco attrattive. Per i medici di famiglia, sulla base dei dati disponibili, GIMBE stima una carenza di oltre 5.500 professionisti. Per gli specialisti, l’analisi dei tassi di assegnazione dei contratti di formazione mostra criticità rilevanti in aree cruciali per il funzionamento del SSN, come medicina d’emergenza-urgenza, chirurgia generale, medicina di comunità e delle cure primarie, radioterapia e numerose specialità di laboratorio.

Sul fronte della programmazione, la Fondazione evidenzia che i pensionamenti attesi risultavano già compensati dall’offerta formativa esistente prima della riforma. Secondo le stime Agenas, tra il 2026 e il 2038 andranno in pensione oltre 39 mila medici dipendenti e, tra il 2026 e il 2035, più di 20 mila medici convenzionati, per una riduzione media di circa 5.000 unità l’anno. Un andamento che, secondo GIMBE, non giustifica l’aumento degli accessi, anche perché la cosiddetta “gobba pensionistica” avrebbe iniziato a ridursi dopo il 2025.

Un ulteriore elemento critico riguarda la tempistica. I medici formati con l’attuale riforma entreranno nel mercato del lavoro non prima di nove-undici anni. Questo, avverte GIMBE, potrebbe determinare un numero di laureati superiore alle capacità di assorbimento del SSN, con il rischio di riprodurre una fase di pletora medica, già sperimentata in passato e associata a scarsa valorizzazione professionale e condizioni di lavoro penalizzanti.

La Fondazione esprime inoltre forti perplessità sul modello del semestre filtro, caratterizzato da una forte concentrazione di attività didattica in tempi ristretti, didattica prevalentemente a distanza e prove di esame considerate poco adeguate a valutare attitudini e competenze necessarie alla professione medica. L’ipotesi di una graduatoria nazionale con recupero dei debiti formativi viene definita una soluzione tampone che certifica, secondo GIMBE, le difficoltà applicative della riforma.

Per la Fondazione, la priorità non è aumentare ulteriormente il numero di studenti ammessi a Medicina, ma intervenire sulle condizioni di lavoro, sulle carriere e sull’attrattività del SSN, in particolare per la medicina generale e le specialità oggi disertate. In assenza di misure mirate, conclude GIMBE, la riforma rischia di tradursi in un investimento di risorse pubbliche che non affronta le cause strutturali della crisi del personale sanitario.

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