«Controrisorgimento», questo il termine che Vincenzo De Luca usa quando parla di “devolution”. Per il governatore della Campania, protagonista con i governatori emiliano Stefano Bonaccini e ligure Giovanni Toti (quest’ultimo presente con un messaggio) dell’incontro tenuto a Bologna da Anaao Assomed, il disegno di legge del ministro delle Riforme, il leghista Roberto Calderoli, sulle conseguenze dell’autonomia differenziata delle regioni del Nord è «distruttivo dell’unità d’Italia». E la sanità è la materia in cui già oggi si vedono le crepe originate dal regionalismo nel tessuto del paese. De Luca osserva che l’autonomia ha un costo, pagato in termini economici dai contribuenti delle regioni che non l'avranno, in termini umani dal Mezzogiorno con disservizi ed emigrazione di pazienti e professionisti. «Ci sono elementi di truffa politica e comunicativa quando si dice che l’autonomia si fa senza oneri aggiuntivi. Come si fa, senza interventi dello Stato, a garantire livelli essenziali di prestazioni che oggi gran parte delle regioni non erogano? Abbiamo una spesa sanitaria al 6,3% del Prodotto interno lordo, cui mancano almeno 30 miliardi facendo le proporzioni con Francia e Germania. Eppure, si tratta di una priorità assoluta, se la gente non sta bene non c’è Pil. E questa proporzione non cambierà, perché la ripartizione del Fondo sanitario avviene ed avverrà sulla base della spesa storica fin qui sostenuta in ogni regione». Una spesa che ad esempio in Campania, sottolinea De Luca, lascerà la dotazione di personale «a 11,7 addetti ogni 1000 abitanti contro i 16,8 del Piemonte, i 19 dell’Emilia-Romagna. Nella nostra regione abbiamo affrontato la pandemia, con grandi risultati, con 15 mila dipendenti in meno. Oggi per ogni residente riceviamo 40 euro in meno del Veneto e 60 in meno dell’Emilia-Romagna, due regioni che una volta autonome potranno contare sul residuo fiscale dei loro residenti contribuenti e, con la Lombardia, potranno utilizzare questi fondi per sottoscrivere con il personale contratti integrativi attraendo professionisti dalle altre regioni d’Italia». Altro tema ricordato da De Luca, i criteri di riparto della spesa che avvantaggiano le regioni del Centro-Nord: «La Costituzione prevede che il riparto del Fondo sanitario nelle regioni avvenga sulla base non solo della pesatura dei cittadini per età anagrafica ma anche dell’attesa di vita e della deprivazione sociale. Per 10 anni ci è stato detto che, contando la Campania più residenti giovani, c’erano meno malattie e la salute costava meno, anche se la nostra aspettativa di vita è 2 anni inferiore alla media italiana. Solo dopo un nostro ricorso al Tar Lazio, da noi vinto, il governo Draghi ha introdotto la pesatura con i due criteri dimenticati. Ma si è fatto in modo che l’età anagrafica valga per il 99% del riparto e l’aspettativa di vita e la deprivazione sociale per lo 0,5 % ciascuna. Il risultato di ciò è che i pronti soccorso non reggono più, che non abbiamo la possibilità di mandare il personale sanitario nelle aree interne, che non sono possibili adeguamenti salariali, che la carenza di personale cresce, anche nelle 170 case di comunità cui stiamo lavorando. L’autonomia peggiorerà tutto questo».
Per Francesco Pallante associato di Economia Politica all’Università di Torino, protagonista dei lavori con Francesco Porcelli docente all’Università di Bari, l’autonomia differenziata affronta un problema collettivo, l’insostenibilità dei diritti fondamentali dei cittadini con gli attuali finanziamenti, con soluzioni anticostituzionali. «Nel 2023 la Consulta nella sentenza 71 ha sancito che il finanziamento di un livello essenziale di prestazione-LEP posto a garanzia di un diritto fondamentale del cittadino è inscindibile dal “LEP” stesso. Cioè, il sistema tributario non può prendere meno risorse di quelle che servono per finanziare ovunque nel Paese i diritti garantiti». Una premessa: ogni regione affronta una spesa diversa per produrre sul proprio territorio le prestazioni atte a sostenere un diritto. Per essere sicuri di mantenere esigibile quel diritto in tutte le regioni si dovrebbe erogare la prestazione a sostegno di esso non al costo sostenuto nella regione più virtuosa ma a quello della regione dove il diritto è meno sostenibile. «La Costituzione fissava come pre-condizione indispensabile per finanziare correttamente i LEP l’imposizione progressiva prevista all’articolo 53 della Carta», avverte Pallante. «Nel 1973 le aliquote Irpef erano 32 e andavano a crescere con il reddito, la minima era al 10% e la massima al 72%. Oggi tale imposizione non c’è più. Abbiamo, a parte l’evasione, tre aliquote e il governo ne progetta una sola, con cui dovremmo finanziare le spese sia per i diritti fondamentali sia per i diritti facoltativi, per i quali in realtà i fondi dovrebbero esserci solo dopo che lo stato ha assicurato i diritti fondamentali (ad esempio prima di finanziare la scuola privata bisognerebbe sincerarsi di finanziare adeguatamente la scuola pubblica)». Nel Ddl Calderoli, aggiunge Pallante, non si prevedono poi gli oneri della riforma. «Le regioni del Nord che hanno chiesto l’autonomia trarranno le risorse per attuare i LEP dal residuo fiscale delle tasse pagate dai loro residenti (54 miliardi in Lombardia, 18 in Veneto, 17 in Emilia-Romagna) in base ad una trattativa condotta dai rispettivi governatori e dal ministro delle riforme. Nelle altre regioni i finanziamenti resterebbero quelli fissati dalla spesa storica, tranne nelle regioni oggi impossibilitate ad erogare alcune prestazioni fondamentali (queste ultime dovrebbero trarre risorse aggiuntive dal fondo di perequazione ndr). L’insieme delle misure sarebbe sostenuto dalla diminuzione della spesa statale attraverso l’affidamento di funzioni, personale e dotazioni alle regioni autonome. In realtà l’Ufficio di Bilancio della Ragioneria dello Stato ha replicato che nelle regioni a statuto ordinario rimaste, facendo meno economie di scala, i costi di produzione dei LEP supereranno gli attuali».
Tra i contributi al convegno anche quello di Giovanni Migliore, presidente Federazione aziende sanitarie ed ospedaliere-FIASO, che disillude i critici della “devolution": «In sanità sperimentiamo l’autonomia regionale da quasi 25 anni. La modifica del Titolo V del 2001 ha creato di fatto 21 sistemi sanitari. La riforma può e deve essere dunque un’opportunità per garantire maggiore equità e stabilità al sistema sulla base dell’esperienza che abbiamo maturato».