Nel percorso oncologico, la sofferenza non è mai solo fisica. È questo il punto di partenza del volume “Aspetti emozionali nel paziente oncologico. Problemi diagnostici e strategie terapeutiche”, edito Edi. Ermes, firmato da due protagonisti della psiconcologia italiana: Riccardo Torta, Professore Ordinario di Psicologia Clinica all’Università di Torino e già direttore della Psicologia Clinica e Oncologica alla Città della Salute e della Scienza, e Sandro Barni, Primario Emerito di Oncologia dell’ASST Bergamo Ovest–Treviglio.
Il testo nasce dalla consapevolezza che la malattia tumorale richiede una cura che vada oltre la biologia del tumore, per includere i vissuti psicologici e il contesto sociale del paziente. Una visione che, sottolinea Torta, non può più essere considerata accessoria: «Nessuno può più permettersi di tenere distinti psiche e soma. È fondamentale che il clinico riconosca le capacità di coping e resilienza del paziente, così come il supporto offerto dalla famiglia e dalle relazioni. La terapia è più efficace quando è condivisa, accettata, quando il paziente diventa parte attiva del trattamento». Una relazione di cura che si fonda anche sul tempo e sulla qualità del colloquio. «È una vecchia battaglia – spiega Barni – dobbiamo imparare a essere un po’ psicologi, mentre gli psicologi devono comprendere i fondamenti della clinica oncologica. È necessario un linguaggio comune». Il disagio emotivo infatti non è un evento episodico: «Ansia e depressione accompagnano il malato non solo alla diagnosi e durante le terapie, ma anche a distanza di anni, perché spesso non siamo stati capaci di intercettare i segnali precoci. Ecco perché l’oncologo deve conoscere anche gli strumenti psicofarmacologici di base».
Per diventare davvero parte integrante del percorso oncologico, lo psicologo deve stare nel reparto, partecipare alla quotidianità clinica e delle equipe. «Il supporto su chiamata è inefficace» insiste Torta. «Quando lo psicologo è inserito nella squadra, il paziente lo percepisce come parte della cura e non come risorsa per “aspetti deboli” della personalità». Il beneficio non è solo umano, ma anche economico e organizzativo: «Nei reparti dove la psiconcologia era strutturata – racconta Torta – abbiamo registrato minori tempi di degenza, meno accessi al pronto soccorso e minori richieste al medico di famiglia. Questo dovrebbe far riflettere le direzioni ospedaliere sul valore dell’investimento». Per Barni, la sfida resta grande: «In Italia c’è ancora una certa riluttanza ad accettare il supporto psicologico, perché non viene percepito come parte della cura oncologica. Il primo passo è convincere il medico: con lo psicologo in reparto gli si risolvono molti problemi». Nel suo reparto, la presenza dello psicologo nella prima visita è diventata prassi: «Identificare precocemente i pazienti più fragili fa bene a tutti: il paziente si sente più sicuro, il medico può gestire meglio i controlli successivi. È un risparmio di tempo e di risorse, oltre che un guadagno di qualità di vita».