Clinica
Malattie cardiovascolari
14/01/2025

L'impatto dell'iperparatiroidismo primario sulla salute cardiovascolare: l'importanza della vitamina D

Diversi studi hanno evidenziato come l'iperparatiroidismo sia associato anche a un aumentato rischio di malattie cardiovascolari, che sembra correlato alle concentrazioni di PTH

vitamina-d

L'iperparatiroidismo primitivo (IPP) è una malattia endocrina comune, con una prevalenza compresa tra 0.5-0.7% circa nella popolazione e un'incidenza in continuo aumento, attribuibile prevalentemente al riconoscimento delle forme asintomatiche. «Oltre ai classici sintomi, come dolore osseo e addominale, e complicanze, come nefrolitiasi e osteoporosi, diversi studi hanno evidenziato come l'IPP sia associato anche a un aumentato rischio di malattie cardiovascolari (CV), che sembra correlato alle concentrazioni di PTH (Yu N, et al. Clin Endocrinol 2011; Silverberg SJ, et al. J Clin Endocrinol Metab 2014; Wetzel J, et al. J Clin Hypertens 2017)», affermano Chiara Parazzoli e Iacopo Chiodini, Unità di Endocrinologia, ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda, Milano. «Tuttavia, non è noto se questa associazione sia indipendente dallo stato vitaminico D, considerando che l’ipovitaminosi D si associa a una maggiore incidenza di tali malattie» (Cosentino N, et al. Nutrients 2021; de la Guía-Galipienso F, et al. Clin Nutr 2021).

«Lo studio di Soto-Pedre e colleghi, pubblicato nel “Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism” nel 2023, aveva come obiettivo valutare morbilità e mortalità associate all’IPP e verificare se queste fossero indipendenti dai livelli di vitamina D», riferiscono gli esperti. «Si tratta di uno studio retrospettivo di coorte condotto dal 1997 al 2019 su una popolazione di una contea scozzese (Tayside) con circa 400mila abitanti in gran parte caucasici».

«La popolazione è stata distinta in due gruppi in base alla presenza di IPP, identificato tramite un algoritmo basato sui dati biochimici», continuano Parazzoli e Chiodini. «La coorte esposta comprendeva 11 616 persone affette da IPP (66.8% di sesso femminile), suddivise ulteriormente in due sottogruppi: IPP probabile, se la calcemia (corretta per albumina) superava i 2.55 mmol/L (> 10.2 mg/dL) in almeno due occasioni durante il follow-up; e IPP certo, se, oltre alla calcemia, era soddisfatto almeno uno dei seguenti criteri: PTH > 3 pmol/L (> 27 pg/mL), calciuria > 7 mmol/die, dimostrazione istologica di un tumore paratiroideo, scintigrafia con sestamibi-99Tc positiva, diagnosi ospedaliera di IPP o cartelle cliniche attestanti una successiva paratiroidectomia. Sono stati esclusi i pazienti con iperparatiroidismo terziario (eGFR ≤ 30 mL/min/1.73 m²) e quelli in trattamento con tiazidici o litio. La coorte non esposta (controlli) comprendeva 34 848 persone, abbinate per età e sesso, senza IPP, sulla base di livelli normali di calcemia durante il follow-up».

«Per ogni paziente sono stati raccolti dati clinici e biochimici prima e durante il follow-up», riportano gli specialisti. «I livelli di 25-OH-vitamina D (25OHD) erano disponibili in 6333 soggetti (2748 con IPP e 3585 controlli), mentre i valori di PTH sierico in 7557 soggetti (4569 con IPP e 2988 controlli)».

Questi i risultati. «Alla diagnosi, il gruppo della coorte esposta con IPP presentava rispetto ai controlli una maggiore prevalenza di osteoporosi e nefrolitiasi, un aumentato tasso di diagnosi di neoplasie, un minor BMI, una maggiore prescrizione di antipsicotici e antidepressivi e una minore presenza di fattori di rischio CV, come diabete mellito e ipertensione arteriosa. Inoltre, c'era una minore presenza di malattie CV e cerebrovascolari, di insufficienza renale e di malattie psichiatriche» riferiscono Parazzoli e Chiodini.

«Durante il follow-up (medio di 8.8 ± 6.8 anni, mediana 7.8), nel gruppo di soggetti con IPP è stato registrato un aumento significativo del rischio di sviluppare tutte queste comorbilità, oltre alle complicanze classiche dell’IPP, come nefrolitiasi e osteoporosi», osservano gli specialisti. «I rischi maggiori includevano: nefrolitiasi (hazard ratio, HR 3.02), ipertensione arteriosa (HR 1.51), insufficienza renale (HR 1.43), fratture (HR 1.42) e, solo per i soggetti con IPP certo, aumento del rischio di cancro (HR 1.51), che si manteneva significativo anche dopo aggiustamento per età, sesso e presenza di neoplasia alla diagnosi. La mortalità era significativamente più alta (HR 2.05)».

«Nel sottogruppo in cui erano disponibili i valori di 25OHD, che erano paragonabili tra i due gruppi (38 (24-63) nmol/L nei soggetti con IPP vs 40 (24-90) nmol/L nei controlli, p = 0.281), è emerso che i rischi aumentati di mortalità, diabete mellito, nefrolitiasi e osteoporosi riscontrati nei soggetti della coorte esposta erano indipendenti dalle concentrazioni di vitamina D», proseguono gli esperti, «mentre non si confermava la significatività statistica per i rischi di comorbilità CV e cerebrovascolare».

«Questo è il più grande studio di popolazione volto a valutare l’impatto dell’IPP sulla salute, considerando i livelli di vitamina D come variabile confondente», commentano Parazzoli e Chiodini. «Negli ultimi anni, numerosi studi hanno dimostrato un aumentato rischio di eventi CV e mortalità nei pazienti con IPP, ma senza fornire dati dettagliati sulla vitamina D. In questo studio è stato trovato che le concentrazioni sieriche di vitamina D non influenzavano l’associazione tra IPP e aumento della mortalità e di tutte le comorbilità, ad eccezione delle malattie CV».

«Punti di forza dello studio: aver analizzato un campione significativamente ampio e aver sottolineato l’importanza della vitamina D in termini di comorbilità e mortalità», osservano Parazzoli e Chiodini. «Limiti: i criteri utilizzati per definire le coorti si basavano principalmente sui livelli di calcemia, senza includere necessariamente la misurazione del PTH, disponibile solo per un campione molto limitato di pazienti. Pertanto, per la definizione stessa di IPP, non è dimostrabile che tutti i soggetti della coorte esposta fossero effettivamente affetti da IPP, poiché potrebbero essere stati inclusi anche soggetti con ipercalcemia da altre cause. Inoltre, nella coorte non esposta, definita solamente sulla base di livelli di calcemia nella norma, potrebbero erroneamente essere stati inclusi soggetti con IPP normocalcemico. In terzo luogo, le due coorti al basale presentavano profili di rischio differenti che potrebbero aver influenzato i risultati. Tra questi, il BMI più elevato nei soggetti della coorte non esposta può essere responsabile della maggiore prevalenza di fattori di rischio e malattie CV e cerebrovascolari, così come l’aumentato tasso di neoplasie nella coorte esposta potrebbe essere legato al criterio di selezione basato sull’ipercalcemia, alterazione biochimica più frequentemente presente nelle patologie maligne. Infatti», sottolineano «un profilo di rischio differente al basale potrebbe aver influenzato il rischio di sviluppare le varie comorbilità nel tempo, nonostante gli aggiustamenti per alcuni, ma non tutti, i possibili fattori confondenti». «In conclusione, l’evidenza di un’associazione tra IPP e malattia CV rimane ancora da dimostrare pienamente e sono necessari ulteriori studi per dimostrare l’eventuale influenza della vitamina D» affermano Parazzolo e Chiodini.

J Clin Endocrinol Metab 2023, 108: e842–9. doi: 10.1210/clinem/dgad103.
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/36810667/

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