Clinica
Neurologia
17/12/2024

Depressione post partum, il ruolo della genetica in uno studio del San Raffaele

Uno studio riporta dati preliminari sulla relazione tra la possibilità di sperimentare episodi depressivi peripartum (Ppd) e la predisposizione genetica a fluttuazioni ormonali

Neonato-Aditya-Romansa-Unsplash

Uno studio firmato San Raffaele Milano, pubblicato su 'Biological Psychiatry: Cognitive Neuroscience and Neuroimaging', riporta "dati preliminari sulla relazione tra la possibilità di sperimentare episodi depressivi peripartum (Ppd) e la predisposizione genetica a fluttuazioni ormonali". La ricerca è stata condotta dall'Unità di Psichiatria e Psicobiologia clinica dell'Irccs Ospedale San Raffaele, diretta da Francesco Benedetti, associato di Psichiatria all'Università Vita-Salute San Raffaele, sotto il coordinamento di Yasmin A. Harrington, ricercatrice dell'Unità Psichiatria e Psicobiologia clinica e di UniSR. "Un ulteriore passo in avanti verso la comprensione di questa patologia, ancora poco studiata, di cui si stima che soffrano almeno il 15-20% delle donne che diventano madri", ricordano da via Olgettina.

Nello studio retrospettivo - spiega una nota - sono state analizzate 64 donne con disturbo depressivo maggiore, suddivise in 2 gruppi: 30 riportavano una storia di Ppd, riferivano cioè di avere sperimentato episodi depressivi intorno alla data del parto; 34 non riportavano una storia di episodi depressivi nel periodo peripartum. Le partecipanti sono state sottoposte a risonanza magnetica per ottenere immagini strutturali del cervello. L'analisi delle immagini ha mostrato che le donne con storia di Ppd, rispetto alle altre, presentavano un aumento del volume dei gangli della base, una regione del cervello coinvolta nella regolazione delle emozioni e della motivazione. Poché il periodo della gravidanza è interessato da notevoli oscillazioni ormonali, ad esempio brusche variazioni dei livelli di estradiolo, per le quali può esistere anche una predisposizione genetica, "abbiamo stimato la predisposizione genetica alle fluttuazioni di estradiolo delle donne esaminate e l'abbiamo confrontata con i risultati delle scansioni cerebrali - riferisce Harrington - Abbiamo osservato che il rischio di essere geneticamente predisposte ad alte concentrazioni di estradiolo era associato a un maggiore volume dei gangli della base nelle donne con una storia di Ppd, mentre nelle donne senza storia di Ppd questo rischio era associato a un volume minore. In altre parole, maggiore era il rischio genetico per alte concentrazioni di estradiolo, maggiore era il volume dei gangli della base misurato, a distanza di anni dal parto, nel gruppo di donne con storia di Ppd. Al contrario, maggiore era il rischio genetico per alte concentrazioni di estradiolo, minore era il volume dei gangli della base misurato nelle donne senza storia di Ppd".

Per gli autori "questi risultati sembrano suggerire che esistano delle differenze specifiche, mantenute negli anni, tra la biologia alla base della depressione maggiore e quella alla base della Ppd". I dati, commenta Benedetti, "anche se preliminari e non definitivi, suggeriscono che la risposta neurobiologica agli ormoni sessuali possa variare in base alla predisposizione personale e alla storia clinica delle pazienti". Dunque "un passo in avanti nella comprensione del disturbo depressivo peripartum, a cui dovranno necessariamente seguire ulteriori ricerche perché questi risultati siano traducibili in trattamenti clinici personalizzati", precisano dal San Raffaele.

La depressione maggiore - riporta la nota - interessa circa 280 milioni di persone nel mondo. In Italia si stima che almeno 1 persona su 5 sperimenti un episodio depressivo nel corso della vita. Ad oggi circa il 5% della popolazione soffre di depressione maggiore ricorrente, una forma cronica della malattia che può manifestarsi seguendo un andamento stagionale.

Negli anni, per comprenderla meglio e trattarla, il San Raffaele ha condotto diversi studi. Il gruppo di Benedetti sta lavorando anche a un progetto di ricerca che, nel maggio scorso, ha portato alla pubblicazione su 'Brain, Behavior and Immunity' di uno studio clinico di efficacia e sicurezza di un trattamento con interleuchina 2. Lo studio ha dimostrato che la somministrazione di basse dosi di questa citochina infiammatoria migliora la risposta dei pazienti ai farmaci antidepressivi già in uso, promuovendo la proliferazione dei linfociti T, una specifica popolazione di cellule immunitarie.

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