Individuare un gruppo nascosto di cellule immunitarie “attaccanti” nei linfonodi pancreatici, che compaiono nelle fasi più precoci della malattia, potrebbe offrire la prima reale possibilità di rilevare o persino interrompere il diabete di tipo 1. È l’ipotesi di uno studio, pubblicato su Science Immunology, che mette in luce un possibile punto di svolta nella diagnosi precoce del diabete di tipo 1.
Una ricerca del The Lancet Diabetes & Endocrinology, ha stimato nel 2025 saranno 9,5 milioni le persone che vivono con questa condizione, il 13 per cento in più rispetto al 2021. Le proiezioni indicano che il numero salirà a 14,7 milioni entro il 2040.
Ora, per la prima volta, i ricercatori sono riusciti a identificare, nei linfonodi pancreatici, un gruppo specifico di cellule T CD4 che sembra attivarsi nelle fasi iniziali della malattia, prima che la distruzione delle cellule beta sia compiuta. La ricerca si inserisce nell’Human Pancreas Analysis Program (HPAP. il programma, lanciato nel 2016 con finanziamenti del National Institutes of Health (NIH), che studia in profondità il pancreas per capire cosa succede nell’organo prima e durante il diabete di tipo 1 e di tipo 2. I ricercatori evidenziano come l’approccio sia stato reso possibile dal contributo dei donatori e dalle infrastrutture condivise, inclusa la banca dati PANC-DB, oggi liberamente accessibile alla comunità scientifica.
Analizzando quasi un milione di cellule immunitarie — una per volta — provenienti dai linfonodi pancreatici e dalle milze di 43 donatori di organi (alcuni con T1D, altri con segnali precoci della malattia, altri sani), i ricercatori hanno identificato un sottogruppo unico di cellule T CD4, un tipo di cellule immunitarie “helper”, presenti nei linfonodi pancreatici delle persone con T1D attivo. Queste cellule aumentano l’espressione di due proteine, NFKB1 e BACH2, due proteine che agiscono come interruttori trascrizionali in grado di orientare l’assetto immunitario verso un fenotipo patogeno. Il dato cruciale è che lo stesso profilo cellulare è stato osservato anche in soggetti in fase pre-clinica, suggerendo che il processo autoimmunitario sia già attivo quando ancora esiste una quota significativa di cellule beta funzionali.
Parallelamente, nello studio emerge un secondo elemento di interesse clinico: nella milza, alcuni linfociti B presentano firme molecolari specifiche del T1D, rilevabili anche nel sangue periferico. Questo apre la prospettiva di un test ematico in grado di segnalare il rischio di diabete di tipo 1 anni prima dell’iperglicemia, con implicazioni importanti per la sorveglianza dei gruppi a rischio, , senza procedure invasive, in particolare i familiari di primo grado.
“Lo studio ha mostrato che lo stesso pattern cellulare si verifica nelle persone in fase pre-diabetica di tipo 1, che non mostrano ancora sintomi. Ciò suggerisce che il malfunzionamento immunitario inizi presto, potenzialmente quando molte cellule beta produttrici di insulina sono ancora sane”, ha spiegato Golnaz Vahedi, corrispondent-author dello studio “Se riusciremo a bloccare le vie che alimentano queste cellule T CD4 anomale, potremmo ritardare o persino prevenire il diabete di tipo 1”.
Il passo successivo sarà l’impiego di modelli di intelligenza artificiale per riconoscere nel sangue le tracce lasciate dalle cellule immunitarie patogene. “Il nostro obiettivo è insegnare all’AI il linguaggio molecolare del diabete di tipo 1 addestrandola sulle cellule patogene nei linfonodi pancreatici così da poter rilevare le loro tracce nel sangue, anche quando sono molto rare”, ha detto Vahedi.
L’obiettivo, spiegano gli autori, è costruire strumenti predittivi capaci di intercettare l’autoimmunità nelle sue fasi più precoci e, in prospettiva, sviluppare interventi mirati alle vie di segnalazione che sostengono l’attivazione anomala delle cellule T CD4. Un approccio che, se confermato, potrebbe contribuire a ritardare o prevenire la progressione verso il diabete clinico.