Le infezioni periprotesiche costituiscono una delle peggiori complicanze della chirurgia ricostruttiva articolare. La loro patogenesi coinvolge il rapporto tra il microorganismo causale, la sua virulenza e carica batterica, la suscettibilità dell'ospite (fattori di rischio) e la presenza di un dispositivo impiantato. Infatti, in caso di chirurgia che preveda impianto di devices, come le protesi articolari, la patogenicità dei microrganismi si rivela 100 000 volte superiore rispetto ad infezioni correlate a interventi che non prevedono impianti.
I microrganismi, infatti, sono in grado di aderire al dispositivo impiantato e di produrre biofilm. Quest’ultimo li rende: meno rilevabili da parte delle comuni tecniche diagnostiche microbiologiche; resistenti alle terapie antibiotiche, che in presenza di biofilm non hanno potenzialità eradicanti; resistenti al sistema immunitario, mediante meccanismi di escape dall’immunità innata noti come “fagocitosi frustrata”. Inoltre, il biofilm consente ai patogeni di scambiare fra loro plasmidi, contenenti DNA con fattori di virulenza e antibiotico-resistenza.
I patogeni più frequentemente coinvolti nelle infezioni periprotesiche sono gli stafilococchi, in particolare S. aureus.
La diagnosi delle infezioni ossee articolari si basa su criteri clinici, laboratoristici e microbiologici. La presenza di una fistola è segno patognomonico di infezione, simile è da considerarsi la deiscenza della ferita chirurgica con secrezione di materiale purulento. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, questi rilievi sono assenti, con una sintomatologia meno franca che può variare da minima flogosi locale alla protesi dolorosa, senza ulteriori segni di infiammazione. Di fronte a un sospetto clinico di infezione è necessario effettuare: esami ematici (emocromo, VES, PCR e, secondo studi più recenti, anche D-dimero) e prelievo di liquido sinoviale, mediante artrocentesi, per esame colturale, biochimico e citometrico. I criteri diagnostici dell’International Consensus Meeting di Philadelphia del 2013 confermavano la diagnosi di infezione periprotesica in presenza di un criterio maggiore (fistola oppure due culturali positivi per lo stesso patogeno) oppure tre criteri minori, ossia: VES>30 o PCR >1 mg/dl nelle infezioni croniche (10 mg/dl nelle infezioni acute); leucociti sinoviali > 3000/ml nelle infezioni croniche (>10000/ml nelle infezioni acute); percentuale di polimorfonucleati nel liquido sinoviale >80% nelle infezioni croniche (>90% nelle infezioni acute) oppure strip test dell’esterasi leucocitaria positivo (almeno 2++); esame istologico di tessuto periprotesico positivo per almeno 5 neutrofili per alto campo di ingrandimento (HPF) in 5 campi di ingrandimento 400X; singolo colturale tissutale positivo.
Questi criteri sono stati aggiornati durante l’International Consensus Meeting del 2018, con l'aggiunta di test dell’alfa-defensina sinoviale, D-dimero sierico e di PCR sinoviale, con la creazione di uno score di probabilità di infezione periprotesica.
Il ruolo della radiologia resta marginale nella diagnosi precoce di infezione, ma non nella valutazione delle sue conseguenze tardive. La radiologia convenzionale consente di rilevare eventuali segni di riassorbimento osseo periprotesico, mobilizzazione dell'impianto, o osteomielite. L'ecografia ha un valido ruolo come guida degli agoaspirati di raccolte periprotesiche. La risonanza può essere impiegata per escludere ascessi profondi addominali (talvolta in continuità con le protesi d'anca infette). La TAC è utile per la pianificazione operatoria prima del reimpianto e per la valutazione del bone stock. In rari casi è necessario ricorrere alla medicina nucleare: la scintigrafia trifasica, esame molto sensibile, ma poco specifico, consente di escludere mobilizzazioni protesiche (se eseguita con la corretta tempistica); la scintigrafia con leucociti marcati è da riservare ai casi in cui i precedenti algoritmi diagnostici risultano non conclusivi. Resta da chiarire il ruolo della PET-TAC con 18F-FDG.
Per quanto concerne il trattamento, esso è strettamente dipendente dalla tempistica di intervento rispetto all'esordio dell'infezione. Le infezioni precoci (con esordio nelle prime 4 settimane dall’intervento) possono essere trattate, se diagnosticate tempestivamente, con lavaggio articolare e sostituzione delle componenti modulari e inserti protesici, seguita da terapia antibiotica prolungata (DAIR). Simile approccio viene impiegato nelle infezioni tardive, a genesi ematogena, diagnosticate precocemente. Il DAIR ha un tasso di successo estremamente variabile e correlato al timing dell’intervento, nonché alla corretta esecuzione della bonifica articolare. In caso di infezioni ad esordio ritardato (dopo le 4 settimane ed entro i 2 anni dall’intervento), infezioni precoci o tardive trattate a distanza e fallimento di DAIR, il trattamento consiste nell’espianto della protesi, bonifica radicale dei tessuti molli e ossei e da terapia antibiotica mirata. Nella maggior parte dei casi, viene temporaneamente impiantato uno spaziatore in cemento antibiotato, poi sostituito con una nuova protesi definitiva durante un nuovo intervento, a distanza di due o tre mesi. Il tasso di successo del reimpianto in two-stage è di circa il 90%. Con un simile tasso di successo, in pazienti ben selezionati (patogeno causale singolo già noto, non multiresistente, buona copertura dei tessuti molli, buon bone stock, ospite non immunocompromesso) si può eseguire il reimpianto protesico durante lo stesso intervento di espianto (one-stage), previa accurata bonifica dei tessuti molli e ossei
La migliore cura resta la prevenzione. Un'accurata selezione e preparazione del paziente prima dell’intervento, modulando i fattori di rischio d’infezione modificabili (es. fumo, diabete, timing di sospensione degli immunosoppressori, patologie dentarie, ecc), nonché una corretta prassi di sala operatoria, consentono di ridurre al minimo (ma non di eliminare) l’incidenza di questa terribile complicanza.
Ilaria Morelli
Dirigente Medico
SC Ortopedia e Traumatologia
ASST Nord Milano