Il team di diversi professionisti è la chiave per ottenere i risultati migliori con i pazienti più complessi. A patto di coinvolgere questi ultimi in un piano di cura gestito con regole condivise e senza figure sovraordinate. In un articolo su Italian Journal of Medicine, Dario Manfellotto medico internista dell’Ospedale Isola Tiberina Gemelli Isola di Roma e Presidente della Fondazione Fadoi, e Letizia Tesei, responsabile della Nursing Midwifery Area dell’AST di Macerata e presidente Animo, associazione infermieri di Medicina Interna, evidenziano i vantaggi di un’organizzazione interprofessionale delle cure sia per i pazienti sia per gli operatori sanitari. Vantaggi che sono in primo luogo in termini di coinvolgimento del malato e dei caregiver, ma in prospettiva anche di esiti di cura, di tempo meglio speso dai professionisti, di risparmi per i servizi sanitari.
«Specie nel mondo anglosassone, c’è molta letteratura sulle migliorie che l’adozione di modelli di cura interprofessionali produce nell’assistenza al paziente», spiega Manfellotto. «In Medicina interna e abbiamo a che fare con quel quinto di ricoveri ospedalieri che presentano co-morbilità. Si tratta spesso di anziani con disabilità, talora non in grado di prestare il consenso informato. Oltre ad un nucleo familiare collaborativo, questi pazienti necessitano di più competenze: medica, infermieristica, psicologica. E ancora: operatori sociali, specialisti, medico di famiglia. I dati delle sperimentazioni cliniche dimostrano che in presenza di un team interprofessionale ci sono risultati migliori anche per il paziente». L’articolo illustra due concetti chiave: primo, cosa vuol dire mettere in pratica un rapporto interprofessionale; secondo, quali passi fare per trasportare il modello nel servizio sanitario italiano. «Nell’ambito del rapporto medico-paziente tradizionale, “paternalistico” – spiega Manfellotto– il paziente riceve dal medico ordini od indicazioni. Ma oggi le cose sono cambiate. C’è la consapevolezza che, per ottenere la miglior assistenza possibile, il paziente va considerato nella sua globalità clinica e va coinvolto con familiari nelle scelte inerenti al progetto di cura». In letteratura si è parlato di “medicina delle 4P”: Personalizzata, Preventiva, Predittiva, Partecipativa. Un contesto che prevede lo scambio reciproco di informazioni e di spiegazioni sugli obiettivi di trattamento fra team, paziente e famiglia: un adattamento che parte dal presupposto secondo cui il malato non è uno standard ma un individuo con le sue peculiarità. Non a caso si parla di pazienti “real life”, diversi da quelli selezionati negli studi clinici, cui adattare in modo mirato i piani assistenziali». La medicina delle 4 P è applicata soprattutto negli USA, dove è forte la presenza delle assicurazioni, e le risposte assistenziali sono calibrate sulla portata delle polizze da operatori privati, in genere profit, attenti alla customer’s satisfaction. «Nel nostro Paese - spiega Manfellotto a Doctor 33- è più difficile offrire gli standard di accoglienza del top hospital USA. Ad esempio, con ospedali vecchi, non ampliabili, da ristrutturare, magari ubicati nei centri cittadini, disporre di stanze singole è complicato. C’è bisogno di disegnare processi sostenibili e di umanizzazione, di ospedali dove una stanza a due letti può diventare a un letto, strutture pronte ad adattarsi a necessità organizzative estemporanee».