
Uno studio multicentrico internazionale coordinato dall'Irccs ospedale San Raffaele di Milano ha dimostrato come la somministrazione continua o intermittente di meropenem, antibiotico utilizzato per la maggior parte delle infezioni da gram negativi, appartenente al gruppo delle beta-lattamine e inserito nella lista dei farmaci essenziali dell'Oms, non incide sulla prognosi dei pazienti e getta nuova luce sulle politiche sanitarie da adottare per indirizzare risorse umane ed economiche in interventi di maggior efficacia.
La ricerca, appena pubblicata sul 'Jama' e supportata dall'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) - riferisce una nota - è stata coordinata da Alberto Zangrillo, Giovanni Landoni e Giacomo Monti del Centro di ricerca in Anestesia e Terapia intensiva dell'ospedale milanese e dell'università Vita-Salute San Raffaele e ha coinvolto 26 ospedali in 4 nazioni (Italia, Russia, Kazakhstan e Croazia), per un totale di 607 pazienti, la più grande popolazione di persone incluse in un progetto di ricerca su questo specifico tema. La resistenza agli antibiotici, ovvero la capacità dei batteri di divenire insensibili all'azione dei farmaci in grado di ucciderli - ricorda la nota - rappresenta un'importante emergenza sanitaria e una delle più grandi minacce alla salute globale.
In particolare, per le beta-lattamine, finora si è sempre ipotizzato che la somministrazione 'in continuo' di questi farmaci, tramite infusione endovenosa continua, rispetto alla classica somministrazione 'intermittente', sempre endovenosa, offrisse un vantaggio in termini di miglior sopravvivenza all'infezione e un minor rischio di insorgenza di batteri multi-resistenti a svariati antibiotici. Tuttavia, questa ipotesi non aveva mai trovato una conferma, o una smentita, all'interno di un grande studio scientifico. Per queste ragioni, il gruppo di lavoro milanese ha elaborato, in un progetto iniziato oltre 10 anni fa, un protocollo di ricerca sperimentale in grado di rispondere in maniera efficace a questa domanda: qual è il modo migliore di utilizzare il meropenem nelle infezioni più severe, quelle che colpiscono malati ricoverati presso le Unità di terapia intensiva?
Lo studio, condotto in cieco, ha seguito 607 pazienti affetti da una particolare forma di infezione grave (respiratoria, gastrointestinale o urinaria) al punto da determinare un quadro di sepsi, una particolare reazione del corpo alle infezioni che può causare morte in 1 paziente su 3. A metà di questi pazienti è stato somministrato meropenem in infusione endovenosa continua, all'altra metà in infusione endovenosa intermittente, a parità di quantità di farmaco complessivamente somministrato. I pazienti sono stati seguiti per i successivi 90 giorni per verificare se il trattamento ricevuto fosse in grado di modificare l'andamento della patologia.
Il risultato dello studio è stato neutro: in entrambi i casi la somministrazione ha prodotto il medesimo esito, con una mortalità dopo 90 giorni risultata identica nei due gruppi, attestandosi al 42%. "Con questo studio abbiamo dimostrato che la modalità di somministrazione dell'antibiotico non è in grado di modificare in maniera significativa la mortalità o l'insorgenza di nuove infezioni ancora più difficili da trattare'', spiega Giacomo Monti. ''Durante lo studio, non è stato osservato alcun effetto collaterale legato all'infusione del farmaco in entrambe le modalità, e ciò rappresenta un importante indice di sicurezza per entrambi i sistemi di somministrazione'', aggiunge
Alberto Zangrillo. La ricerca ha infine mostrato che non esistono particolari nicchie di pazienti che potrebbero forse beneficiare di una modalità di somministrazione piuttosto che dell'altra.
"I risultati della ricerca - continua
Giovanni Landoni - spostano quindi l'attenzione su altri aspetti che si dovranno tenere in considerazione nella gestione del malato che presenta gravi infezioni batteriche in terapia intensiva, valutando di poter destinare risorse umane ed economiche ad altri specifici interventi che potrebbero essere di maggiore efficacia". Lo studio dei dosaggi, che potrebbero dover essere aumentati nelle prime ore, la durata della somministrazione, che potrebbe essere ridotta in casi selezionati e l'associazione di altri antibiotici, sono alcune delle specifiche importanti che vanno prese in considerazione. "Ci auguriamo che lo sviluppo di nuove tecnologie - conclude Zangrillo - possa aiutare a ottimizzare le diagnosi delle infezioni, anticipandole e rendendole più precise e che, grazie all'utilizzo di farmaci e tecniche adiuvanti, si possano migliorare le capacità del sistema immunitario dei pazienti a reagire all'infezione, senza amplificare la risposta infiammatoria".